Ci sono un paio di questioni che credo rappresentino dei nodi che stanno arrivando al pettine di chi si occupa di finanza d’impatto – o perlomeno di quel pezzo della finanza che opera attraverso l’investimento in società non quotate.
La prima riguarda l’orizzonte temporale degli interventi. Nel private equity e nel venture capital (e quelli a impatto non fanno eccezione) tipicamente si utilizza lo strumento dei fondi chiusi. Si tratta di veicoli che hanno una durata prestabilita, di solito di dieci anni circa. La vita di un fondo di questo tipo si suddivide in tre fasi: nella prima, si selezionano e si concretizzano le opportunità di investimento; nella seconda, si gestiscono le partecipazioni e si affiancano le imprese oggetto di investimento nel loro percorso di crescita; nella terza, queste vengono valorizzate, attraverso un processo di vendita che realizzi il valore generato, che viene poi redistribuito agli investitori.
La durata di ciascuna di queste fasi non è fissa e, almeno in parte, le une si sovrappongono alle altre. Considerato che non tutti gli investimenti si fanno nei primissimi anni di vita del fondo e che non tutte le exit si fanno in quelli finali, il periodo medio di permanenza di un titolo in portafoglio può variare tra i 4 e i 6 anni. Non sempre questo periodo è sufficiente a consentire la piena realizzazione dei cicli di sviluppo, soprattutto per imprese in fase early stage o che sperimentano dei modelli di business innovativi. Il gestore del fondo può quindi trovarsi nella condizione di dover accelerare oltremodo i tempi di maturazione naturale dell’impresa o di cercare di vendere la partecipazione troppo in anticipo – mancando quindi di soddisfare la missione sociale del fondo nel primo caso o la quella economico finanziaria nel secondo.
La seconda questione riguarda invece la dimensione. Oggi in Italia esistono meno di 10 veicoli di investimento ad impatto. Sono diversi per tipo di soggetti promotori e gestori, per tipo di strumenti finanziari che utilizzano, per tipo di organizzazioni destinatarie degli interventi e per altri motivi. Una cosa li accomuna: la dimensione, che è ridotta; tutti hanno un patrimonio tra i 20 e i 50 milioni di euro. Fa eccezione il prossimo fondo di Oltre Impact, che punta a raccoglierne 70 (e vedremo poi perché). Questa circostanza è un bene o un male? La domanda, credo, è meno banale di questo non possa sembrare e cerco di spiegare perché.
L’industria finanziaria (non solo quella, ma quella qui ci interessa) funziona secondo modelli che, essendo orientati all’efficienza, privilegiano le grandi dimensioni, perché la dimensione genera economie di scala (e non solo). I grandi costi operativi, che le istituzioni finanziarie devono sopportare per gestire la loro complessità, vengono diluiti solo in una massa di grandi ricavi. Cosa che non è possibile fare quando non ci sono. Per fare un esempio, un piccolo fondo (che sia ad impatto o meno, non importa) ha più o meno gli stessi costi di compliance di un fondo 10 o 100 volte più grande. In un settore iper-regolato come la finanza, gli oneri legati agli adempimenti normativi sono pesantissimi. Ovviamente, questi costi, tendenzialmente fissi o quasi, incidono molto più significativamente su un patrimonio piccolo, finendo col deprimere il rendimento del fondo. E questo è il motivo per cui conviene gestire un fondo grande che un fondo piccolo (ecco spiegata la scelta di Oltre Impact): è più efficiente. Ma è anche più efficace?
La dimensione di un fondo non è neutra rispetto agli esiti che può produrre. Uno potrebbe dire, semplificando, che più soldi si investono, più impatto si genera. A mio avviso, non è necessariamente vero. Un fondo da 100 milioni, per esempio, deve fare interventi da almeno 5-10 milioni l’uno – pena una numerosità eccessiva degli investimenti e quindi una ingestibilità delle partecipazioni in portafoglio. Questo però significa implicitamente anche selezionare i prenditori: una piccola organizzazione non può sopportare un investimento di questa taglia, non è in grado di digerirlo. Quindi, un fondo grande investe su organizzazioni grandi. E le piccole, che sono quelle che forse hanno più bisogno di investimenti, rischiano di venire, quasi per definizione, escluse. Il paradosso è che, proprio dove l’investimento sarebbe più addizionale, diventa più difficile – se non impossibile. Ricordo che l’addizionalità, cioè la capacità di intervenire in aree di fallimento di mercato, dove la finanza non arriva “naturalmente”, è una delle caratteristiche essenziali dell’investimento d’impatto – assieme all’intenzionalità e alla misurabilità dei risultati. In altre parole, il modello più efficiente è quello meno efficace, e viceversa.
Sia la prima sia la seconda questione sono delle trappole in cui l’investimento d’impatto rischia di cadere. Come uscirne? Io penso che un modo per farlo sia non guardare al singolo prodotto, ma di pensare in termini di offerta integrata. Se lo stesso operatore riuscisse cioè a gestire fondi diversi all’interno della stessa strategia, potrebbe da un lato creare una catena di strumenti in grado di seguire l’impresa investita per un periodo più lungo; dall’altro, potrebbe mutualizzare alcuni costi, compensando la redditività maggiore di alcuni veicoli con quella minore di altri. Si tratta di una soluzione non facile né da concepire né da realizzare: occorre che gli investitori dei singoli veicoli siano molto allineati (se fossero gli stessi, il problema si risolverebbe alla radice, ma non è detto che sia possibile) e che gli eventuali conflitti di interesse vengano dichiarati e gestiti con grande trasparenza.